Violenza e surrealismo. Un crudele viaggio nelle angosce di un ragazzo americano migrato in Thailandia attraverso visioni oniriche. Questo è il modo di raccontare di Nicolas Refn, regista culto della nuova generazione. Dimentichiamo la linearità di “Drive”, pellicola che ha permesso al videomaker danese di farsi conoscere al mondo e di vincere la palma d’oro a Cannes come miglior regia.
In Solo Dio perdona Refn torna alle sue origini, torna a rispecchiarsi in un artista come Alejandro Jodorosky, alla nouvelle vague, strizzando l’occhio a David Lynch. Qui domina il tema della vendetta di koreana matrice, le immagini forti a tinte rosse e blu. Lunghi silenzi fanno di Ryan Gosling una silouette, una maschera teatrale, che sembra non trasparire emozioni.
Al suo interno è un vortice di sensazioni. Un rapporto malato con la madre (una perfetta Kristin Scott Thomas in un ruolo insolito per lei), la voglia di fuggire da un sistema per poi miseramente caderci dentro. Ha acquistato una palestra di boxe, ma è solo una copertura per la sua vera attività di trafficante di droga. Lavora con il fratello, il più tosto dei due, che, travolto da un mix di droga ed alcool, uccide una prostituta. Da lì una catena di vendette, una faida. Interviene il “deus ex macihna” un poliziotto in pensione (Vithaya Pansringarm, attore semisconosciuto ma decisamente efficace) che metterà tutto a posto facendo brillare la sua spada. Fa da sfondo una Bangkok immobile.
La trama può essere raccontata così, in due battute. Poco importa, il sostrato è ben pregno di significati, critiche, suggestioni. Refn (suo anche soggetto e sceneggiatura) si svela attraverso immagini evocative, ritratti, tutto carico di metafore. Confeziona il tutto con una regia di altissimo profilo. Valore aggiunto la colonna sonora di Cliff Martinez che dona al film un tono psichedelico, ipnotico. Una pellicola per duri di stomaco.