«Gli uomini si dividono in uomini d’amore e uomini di libertà, a seconda se preferiscono vivere abbracciati l’uno con l’altro oppure preferiscono vivere da soli per non essere scocciati». Il discorso che Luciano De Crescenzo tenne dinnanzi ai suoi “discepoli” in “Così parlò Bellavista” è entrato prepotentemente non solo nella storia del cinema ma anche nella storia di tutti noi, nel nostro quotidiano. Un tema caro quello dell’amore all’ingegnere, scrittore e regista napoletano classe 1928. Tanto da spingerlo all’età di 88 anni a pubblicare un libro dal titolo “Non parlare, baciami. La Filosofia e l’Amore” edito da Mondadori.
La sua esperienza gli porta a scrivere nell’introduzione che “innamorarsi non conviene. In ogni relazione amorosa, infatti, c’è sempre uno che soffre e l’altro che si annoia, e questo perché l’amore inizia contemporaneamente per poi finire in tempi diversi. Meglio allora l’amicizia: quella vera, dura più a lungo e cresce con il passare degli anni”. Proprio questa sofferenza colpì la famiglia Carafa, la cui testa di cavallo in terracotta è l’evento del mese al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’amore clandestino di Fabrizio Carafa e Maria D’Avalos ed il loro brutale assassinio per mano del Principe Carlo Gesualdo, celebre compositore cinquecentesco, sconvolsero la Napoli del 1590. L’amore che sfuma, che si tramuta in noia e che suggerisce il tradimento, la violenta e improvvisa reazione del marito offeso, colorano la storia delle tinte burrascose della passione e della violenza.
Ma l’amore può uccidere?
«Ebbene sì, l’amore può uccidere – così scrive De Crescenzo nel capitolo settimo intitolato “Il dolore dell’amore” – Se pensate che stia esagerando, provate a dirlo al povero Lucrezio, il poeta latino del De rerum natura, per intenderci. Lui a soli quarantaquattro anni si suicidò. Sembra che a condurlo al folle gesto sia stata la gelosia per una improba foemina, una donna scellerata che lo aveva sedotto ricorrendo a un filtro d’amore. A voler essere precisi, però, non siamo certi che questa storia del suicidio sia del tutto vera. A quanto pare, a mettere in giro questa voce sarebbe stato san Girolamo, uno dei padri della dottrina cristiana, vissuto nella seconda metà del IV secolo d.C. Secondo alcuni, il teologo lo fece solo per screditare la figura del poeta, che oltre a essere ateo era anche certo che l’anima morisse con il corpo».
Tornando al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, lei ci è mai entrato?
«Devi sapere che in passato, quando volevo ripercorrere i momenti importanti della storia di Napoli, andavo al Museo Archeologico Nazionale. Forse non tutti lo sanno, ma la collezione di reperti egizi custodita al suo interno è seconda per importanza solo a quella in mostra presso il Museo delle Antichità Egizie di Torino. Insomma, un luogo quasi unico».
Quando è stata l’ultima volta che l’ha visitato?
«Da diversi anni ormai abito a Roma, e le volte che sono venuto a Napoli non ho avuto modo di visitarlo, ma mi sono ripromesso di andarci presto insieme a mia figlia Paola».
Ha un ricordo particolare che la lega al Museo e all’omonimo “quartiere”?
«Il quartiere del Museo è quello che ho frequentato durante gli anni dell’università. Pensa che con i miei amici avevo fondato un piccolo circolo chiamato “Carpe Diem”, in omaggio al poeta latino Orazio. Eravamo soliti organizzare dibattiti, ma anche feste. Non che fosse l’intento principale, ma ogni occasione era buona per conoscere le belle ragazze».
Di forte attrattiva per gli stranieri ma pochi napoletani lo visitano: come mai secondo lei?
«La fortuna di Napoli è di essere essa stessa un museo a cielo aperto, quindi i napoletani pensano che basti passeggiare per le sue strade per ripercorrere la storia che li ha resi tali. In realtà non sanno cosa si perdono».
La cultura napoletana ha da sempre accolto le influenze degli altri paesi: è ancora così nel 2016?
«Penso proprio di sì. Oggi, più che mai, possiamo fare una differenza tra società aperte e società chiuse. Noi siamo stati fortunati, perché siamo nati in una società aperta. Io lo sono stato ancora di più, perché sono nato a Napoli».
(intervista uscita sul magazine MANN del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, novembre 2016)