Una vita legata a doppio filo con il Museo Archeologico Nazionale. Il giornalista e scrittore Luigi Necco si sente a casa tra quelle mura. «Nasco alla Sanità, abitavo in piazzetta Gagliardi – racconta – e tutte le finestre di casa affacciavano proprio sul museo».
Quando vi entrò per la prima volta?
«Era il 1939, avevo 5 anni. All’epoca mia madre mi affidava una anziana signora per passeggiare e ci fermavamo spesso fuori le finestre dei sotterranei e lei mi raccontava che c’erano le mummie. Un giorno me le portò a visitare. Immagini che non ho mai più dimenticato, non potevo immaginare che il museo un giorno sarebbe entrato nella mia vita».
In che modo?
«Quando morì mio padre ero giovanissimo ed iniziai a lavorare. Avevo 17 anni e fui incaricato dal Sovrintendente dell’epoca di portargli la posta alla firma. Era il grande Amedeo Maiuli, l’archeologo di Pompei, Ercolano, Cuma, Creta, Rodi. Conobbi il suo mondo ed i suoi collaboratori, uno su tutti Giuseppe Maggi. Da qui nacque la mia abitudine di frequentare archeologi. Mi capitava di andare anche 100 volte all’anno a Pompei, una volta anche con Maryl Streep».
Avrà tanti ricordi che la legano a questo palazzo…
«Ci ho vissuto, rappresenta una parte della mia vita. Ne conosco ogni angolo, ogni mistero, ogni storia anche sgradevole come quella della “Tazza Farnese” di Alessandria d’Egitto, un cammeo che un custode per dispetto scagliò a terra riducendolo in mille pezzi. Poi fu restaurato. Dal piazzale del museo vidi la festa di Piedigrotta prima della guerra. Ero lì sul piazzale quando se ne cadde una parte della galleria. Il Museo è tutto per me, sento che mi appartiene, è casa mia. Quando ci passo sotto mi sembra di vedere le ombre del passato, della gente che non ci è più che ha dato la vita lì dentro».
In compenso hai portato questo mondo in televisione con “L’occhio del Faraone”…
«Quella rubrica che andava in onda sulla Rai tra il 1993 e il 1997 con lo scopo di far conoscere cosa facessero gli archeologi italiani ovunque andassero nel mondo. Fui il primo a raccontare i ritrovamenti tra il 1965 e il 1997 tutte le più grandi scoperte, come il fatto che furono i Micenei ad insegnare la pittura agli Egiziani, dove è situato il vero deserto di Mosè. Fummo i primi a raccontare il ritrovamento delle barche romane a Pisa e qual era la vera città dove partì l’esodo degli ebrei verso Israele. E soprattutto documentammo il ritrovamento del tesoro di Troia che tutti davano per distrutto. Fu il frutto di una mia indagine durata anni partita dalla stressa Troia per poi passare in Cecoslovacchia, Germania dell’Est ed infine Russia dove era custodito da una donna sotto l’ordine del Kgb».
E come mai non ha fatto l’archeologo?
«Perché constatai che gli archeologi non sono mai felici, passano una vita intera a studiare un solo vaso, alcuni devono lottare con poverissimi strumenti burocratici contro ladri, mercanti, falsificatori, costruttori, è una vita sofferente che viene interrotta bruscamente dalla pensione. Grazie a questa frequentazione ho conosciuto i più grandi archeologi del mondo, loro erano più felici, mentre Napoli è una piazza difficile per una cronica mancanza di mezzi. Mancano soldi per illuminazione giusta, per etichette, per organizzare manifestazioni».
Nonostante ciò è uno dei primi al Mondo…
«Perché è ricco, troppo ricco. Sono presenti opere provenienti dalle civiltà Greche, Romane, Egizie. Una statua come il “Toro Farnese” ad esempio, è unica al mondo, non ne esiste un simile. È un pezzo che da solo per lo studio riempirebbe un museo. Inoltre il museo entra nella nostra vita molto più di quello che noi pensiamo. Non tutti sanno che il memorial a John Lennon che si trova a New York, a Central Park, non è nient’altro che il mosaico della stanza 58 riprodotto lì per volontà di Yoko Ono. Il Museo è un polmone bellissimo in una città dove la cultura classica può dare il suo aspetto moderno senza essere muffita».
Allora perché i cittadini lo frequentano poco?
«I napoletani non ci vanno per questioni pratiche. Il museo non è un luogo facile, c’è la metropolitana ma il napoletano si muove con la macchina e lì non può parcheggiare. Si pensò ad una teleferica tra Capodimonte e il Museo ma la Sovrintendenza si oppose. I cittadini quindi optano per San Martino perché c’è il panorama, oppure per Capodimonte perché c’è il bosco. Invece lo straniero ci va volentieri perché trova grande appagamento della sua fame di cultura».
Come fare per invertire la rotta?
«Va portata vita, fantasia. Gli oggetti devono essere attraenti, bisogna creare eventi e ci vogliono mezzi, intelligenza, buona volontà. La tradizione non può essere conservata dai tradizionalisti, ma da chi la pensa in maniera nuova. Il patrimonio del passato va dato a chi ha idee nuove, a chi è capace di portare alla gente il senso del passato. Questo costa denaro ed impegno. Fino ad oggi si è pensato alla conservazione ma non valorizzazione. Il museo archeologico offre il materiale ma va esaltato, si ha l’obbligo di mostrarlo, farlo capire».
Intanto riapre la sezione Egizia…
«Sto lavorando su un pezzo di quella collezione. Un pezzo che non da nell’occhio, non tutti sanno cosa rappresenta. Non vi svelo ancora di quale si tratta, lo farò tra qualche mese con un libro. Per ora posso dirvi che fa parte di una storia sull’Egitto di Mosè, un racconto che parte da Napoli».
(intervista uscita sul magazine MANN del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ottobre 2016)