Negli ultimi mesi, dall’anteprima mondiale a Venezia 2019, non si fa altro che parlare di “Joker” e della interpretazione maiuscola di Joaquin Phoenix, che dopo aver vinto la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema prenota l’Oscar 2020 come miglior attore.
Ma non tutti sanno (me compreso prima di oggi) che la sua storia ha tutte le caratteristiche di una sceneggiatura cinematografica. Tutto parte dalla tenerissima età dell’attore nato nel 1974 a Porto Rico. È il terzo di cinque figli nati da genitori hippies che facevano parte della setta religiosa dei Bambini di Dio. In questo ambiente si promuove l’incesto e l’attività sessuale già dai 3 anni, tant’è che il fratello River perderà la verginità a soli 4 anni.
Tutto ciò non sta bene ai genitori che decisero di abbandonare quel luogo e rifugiarsi in Florida. Cambieranno cognome da Bottom in Phoenix proprio a simboleggiare la loro rinascita come quella della fenice. Ma non hanno un soldo e sono costretti a dormire in posti di fortuna, esibirsi per strada per mettere qualcosa sotto i denti.
Dopo qualche anno la madre trovò lavoro a Los Angeles, intanto Joaquin e River avevano imparato a cantare, ballare e recitare, e durante la loro partecipazione ad un talent vengono notati da un produttore di Hollywood che li lanciò nel mondo del cinema. Gli esordi sono un successo ma al 12enne Joaquin questo mondo non piace, mollò tutto e si trasferì in Venezuela con il padre.
Farà ritorno a Los Angeles quando il fratello era oramai diventato un idolo degli adolescenti. Ma il dramma è dietro l’angolo. Nel 1993, nella notte di Halloween, River morì per un letale mix di alcool e droga sotto gli occhi di Joaquin che invano telefona disperato al 911. Quella straziante chiamata venne ripresa dai telegiornali e questo turba a tal punto il ragazzo che rivivendo più volte quel momento traumatico decise di riallontanarsi dal cinema.
Ma due anni più tardi arrivò la proposta di Gus Van Sant che lo volle nel suo film “Da morire” (“To die for”). Fu la svolta della sua carriera, quella interpretazione convinse critica e addetti ai lavori. Lavorò per Oliver Stone in “U turn” e “8mm” di Joel Schimacher, fino all’anno della consacrazione nel 2000 con “Il Gladiatore” di Ridley Scott: il suo Commodo gli valse una candidatura agli Oscar come miglior attore non protagonista.
Quel premio non l’ha mai vinto, seppur arrivarono altre due nomination come miglior attore per Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line e The Master. E mi sa che questo è l’anno giusto per restituire a questo attore, questo uomo, tutto quello che ha dato fino ad oggi a noi spettatori.