L’arte è terapia, è pharmacum. Lo sa bene Francesco Renga che per cauterizzare le sue ferite ha voluto ancora una volta cantare della madre. Lo fece con “Ancora di lei” che precedette quella “Tracce di te” con il quale si esibì per la prima volta tra i big di Sanremo. Oggi è alla sua settima partecipazione al Festival con “Aspetto che torni” e chi attendeva un’esplosione vocale sul palco dell’Ariston sarà rimasto sorpreso. Questa volta l’ago della bilancia della sua canzone si sposta sulla parola.
Hai deciso di arrivare al pubblico puntando sull’intensità interpretativa, su di un testo che ti rappresenta, con il quale ti racconti…
«È un testo che racchiude tutto quello che ho scritto in questi anni. Le mie assenze, ossia mia madre che ho perso 30 anni fa. Le mie presenze, quindi mio padre, malato di Alzheimer e che ricorda solo il suo grande amore per lei. Parla d’amore, che come qualsiasi sentimento prende forza e potere mentre lo stai aspettando. Un amore visto in maniera adulta, matura, discreta, semplice, con un grado di consapevolezza dettato dai miei 50 anni, che mi ha permesso di capire che la felicità è più vicina di quello che pensiamo e sta nelle piccole cose di tutti i giorni come guardare la tua compagna mentre dorme o immaginare di seguirla durante la sua giornata di lavoro. Tutte cose che diamo per scontate».
Il tutto ha preso corpo grazie all’intesa con Tony Bungaro…
«Non è stato facile scriverla questa canzone, ma la musica, la melodia di Tony Bungaro mi ha dato questa possibilità. Probabilmente era un testo che era dentro di me da tanto tempo ma che non prendeva forma, mancava la forma espressiva, la canzone. Volevo tornare ad una forma di scrittura un po’ più classica, più elegante, più matura. Ho fatto tante cose in questi anni e credo che questa sia un po’ più vicina a delle cose che ho fatto all’inizio».
E per presentarlo hai scelto ancora una volta l’Ariston…
«Ho scelto questo palco per stigmatizzare dei momenti precisi, dei passaggi importanti, cruciali della mia vita, questo è uno di quelli. Perché per me la musica è questo, la canzone è un atto liberatorio, è una terapia, ho sempre pensato che la terapia si dovesse fare in gruppo, farlo su questo palcoscenico. Un palcoscenico difficile che può farti molto male ma che tu puoi puoi dominarlo, vincerlo, batterlo, domarlo solo se quello che stai facendo in quel momento ti impegna emotivamente più di quanto ti impegni l’idea di essere lì sopra».