«La mia fortuna più grande è quella di essere nato a Napoli». Ribelle e passionale, Edoardo Bennato è l’anello di congiunzione tra il rock made in Usa e le sonorità mediterranee. Con la sua musica è riuscito ad affascinare generazioni e popolazioni di tutto il mondo talvolta colpendo duro come un cazzotto allo stomaco talvolta riscaldando come la carezza di una madre. È da sempre in tour. Copenaghen, Londra e Zurigo. Rio De Janeiro, Buenos Aires, Caraibi. Cuba, Jamaica, Santo Domingo. Ma il suo posto preferito resta sempre la sua città natale. Ed il Museo Archeologico gli porta alla mente ricordi di giovinezza.
«Andando al Liceo Artistico, gioco forza il Museo Archeologico, è stato uno dei luoghi che ho frequentato in modo costante da ragazzo. L’ultima volta che ci sono stato è accaduto non più tardi di 5 mesi fa. Mi incontrai con un amico che, avendo a disposizione degli spazi all’interno del museo, voleva organizzare un concerto, una sorta di “Rock al museo”; non se ne fece nulla. Gli spiegai che i decibel, che si sviluppano necessariamente nel rock, avrebbero potuto nuocere alle meravigliose sculture della collezione provenienti dalla Galleria Borghese».
Ha un ricordo particolare che la lega al Museo? E all’omonimo “quartiere”?
«Di ricordi ne avrei tanti, anche di aneddoti su quando, studente, visitavo con i miei compagni di scuola, le sale museali, ma meglio non far riaffiorare i commenti dei miei compagni, talvolta da me condivisi, sulle figure femminili marmoree di epoca greco-romana».
Di forte attrattiva per gli stranieri ma pochi napoletani lo visitano: come mai secondo lei? I cittadini devono “riappropriarsi” di questo luogo?
«I miei concittadini dovrebbero, e lo dico senza retorica, riappropriarsi dell’intera città! Purtroppo, molto spesso, da no impera: il vittimismo, il fatalismo, l’assistenzialismo, per cui non ci facciamo carico di ciò che è il nostro patrimonio, il nostro “bene comune”. Ovviamente con i dovuti distinguo, conosco molti napoletani che sono propositivi e si danno da fare. Ma non è sufficiente. Dovremmo essere, se non tutti almeno la maggioranza, a prendere coscienza che, senza alcun merito da parte nostra, abbiamo ereditato quella che forse è la più bella città del mondo. Anzi senza forse!».
Il Museo Getty di Los Angeles e l’Archeologico hanno stipulato un accordo per mostre e restauri: il rapporto tra Usa e Napoli è sempre stato forte?
«Mi sembra un’ottima cosa anche se a volte, nel tempo, le politiche dell'”ufficio acquisti opere” – ammesso si chiami così – del Getty Museum sono state un po’ discutibili. Parlo di una certa approssimazione nella verifica della real provenienza di alcune opere acquistate. Ma detto questo, ben vengano queste iniziative. Gli americani amano Napoli! Dall’arte intesa come cinema, musica e, perché no, cucina».
Con “La mia città” ha dipinto Napoli, città che oggi come allora affascina chi viene a visitarla: come la ricorda da ragazzo e com’è oggi?
«La “canzonetta” “La mia città” è un insieme di aggettivi – qualcuno mi ha fatto notare che sono 55 – che riguardano Napoli. La Nottata, di “Eduardiana” memoria, sembra non passare mai. Il mio augurio ed auspicio è che Napoli “cambierà” se non sarò solo io, a credere nel cambiamento».
Quando si esibisce in Italia e all’estero nota ancora fame della nostra cultura?
«Accade sempre, ogni volta che suono fuori dai confini italiani (nel momento in cui sto scrivendo sono in Svizzera per diversi concerti) avverto che l’interesse, la curiosità per il nostro paese è alta».
La cultura napoletana ha da sempre accolto le influenze degli altri paesi: è ancora così nel 2017?
«L’accoglienza, in tutte le use forme, è nel Dna di noi napoletani. Siamo fatti così. Per fortuna, aggiungo io! Siamo spugne che nei secoli hanno assorbito, nel bene e nel male, di tutto. Che mondo sarebbe senza noi napoletani?».